Il quinto punto promulgato dall’ONU nei suoi “17 Obiettivi di Sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030” si propone di “raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze” in tutti gli aspetti della vita civile, politica e sociale. In quest’ultima rientra anche il grande mondo dello sport, parte fondamentale della nostra società e che di fatti ne riflette l’andamento generale. L’ambiente sportivo vive in effetti anch’esso un profondo gap di genere, che spesso viene solo in parte evidenziato dai media. Tendenzialmente, il dato che viene maggiormente riportato dai grandi titoli riguarda la differenza di ricavi economici tra atleti ed atlete professioniste. Entrando più a fondo nei numeri, tuttavia, possiamo renderci conto che la realtà è invece più complessa e il problema è molto più sistemico di quel che sembra.
Le statistiche ISTAT raccontano di una forte prevalenza maschile nella pratica dello sport, sia con continuità che saltuariamente. È da segnalare che la differenza è nulla nella fascia dei 3-5 anni e tende ad assottigliarsi nuovamente oltre i 44. Nel mezzo, invece, il divario è evidente, con una percentuale del 58,4% di maschi e il 42,6% di donne nella fascia di 15-17enni che praticano con continuità. Generalmente, al di là dei range anagrafici, si registra il 29,5% di uomini e il 15,9% di donne tra i praticanti con continuità e un 11,7% contro l’8,1% tra chi si diletta saltuariamente. Il dato si inverte invece tra le persone che dichiarano di fare quotidianamente attività fisica, quale ad esempio passeggiate a piedi o in bicicletta, giardinaggio ed altri esercizi simili, dove si conta il 28,6% di donne contro il 24,4% di uomini. Da notare che la percentuale sale in concomitanza di un livello di istruzione migliore. Più nello specifico, tra tutte le Federazioni regolarmente affiliate al CONI, di tutti i tesserati solo circa il 28% è donna. Non migliorano i dati relativi alle altre figure del mondo dello sport, al di là degli atleti, dove si conta il 19,8% di tecnici, il 15,4% di dirigenti societari e solo il 12,4% tra i banchi federali stessi di quote rosa.
Numeri alla mano, quello che si evince è che lo sport in Italia sia ancora ad appannaggio non esclusivo, ma di certo preponderante maschile. È incoraggiante però segnalare come le istituzioni sembrino aver raggiunto una certa consapevolezza sul tema e conseguentemente comincino ad attivarsi in senso opposto. Nella legge dell’8 agosto 2019 che va a riformare le tutele sportive, il governo italiano si è dato l’obiettivo, entro la primavera del corrente anno, di abbattere numerosi ostacoli di genere, semplificando l’ottenimento dello status professionistico per le atlete. Dalla stagione 2022/2023, ad esempio, la Serie A di calcio femminile diventerà un campionato di professioniste, eguagliando in tal modo le altre leghe più importanti d’Europa. Proprio dal calcio è possibile notare un miglioramento nel trend dei tesseramenti al femminile, che anno dopo anno stanno aumentando notevolmente. La pallavolo resta lo sport rosa per eccellenza, contando il 77% degli iscritti totali alla Federazione (numeri pre-pandemia). Segue il tennis, che conta il 33% di donne. Tennis a cui, però, spetta invece il primato come disciplina che paga meglio le sue rappresentanti donne, con le prime nove sportive più pagate al mondo tutte appartenenti ai circuiti WTA. Se si pensa però che Naomi Osaka nel 2021 era considerata la sportiva più pagata al mondo con 37.4 milioni annui, si capisce quanta differenza ci sia ancora rispetto ai colleghi uomini, che fanno segnare un decimo posto che vale oltre 20 milioni in più, con i 59.1 di Carson Wentz.
Le differenze di genere nello sport sono, insomma, un problema mondiale e, come spesso accade, l’Italia non fa eccezione. Ci sono però dati incoraggianti nel nostro paese, che sottolineano la volontà sociale di dare il giusto spazio allo sport nella vita delle nostre concittadine. Al di là dei chiari benefici a livello di benessere, mentale e fisico, agli effetti che l’attività sportiva può avere sulla salute degli individui e anche sulla sua socialità, investire nello sport femminile è anche questione di merito. Va infine ricordato, infatti, che seppur inferiori nel numero, le atlete italiane risultano quasi sempre essere più vincenti in termini percentuali rispetto ai propri colleghi maschi. Le Olimpiadi sono l’esempio migliore di quanto appena affermato e quelle invernali ancor di più, laddove il medagliere si colora di rosa anche in valore assoluto. A Pechino 2022, ad esempio, l’Italia si è qualificata 13°, con all’attivo 2 ori, 7 argenti ed 8 bronzi. Di queste, 9 medaglie sono state portate a casa da atlete donne e 3 da gruppi misti, contro le sole 5 conquistate dai colleghi maschi.
Lo sport, in Italia, ancora non può dirsi gender-equal, ma le sue vittorie sono spesso colorate di rosa. Si parta da questa consapevolezza per andare oltre i successi sportivi e far diventare lo sport una vittoria della società nella scalata contro il divario di genere. La vetta è lontana, ma la salita è già iniziata!