Giovedì 12 agosto, di mattina presto, in auto, mi sono portato a Napoli. Era ancora notte, quando mi sono messo in viaggio. La sera precedente ero andato a letto, dando un’occhiata sconsolata alla montagna di Sant’Angelo in Formis ormai in fiamme dal giorno precedente. Dalla mia abitazione di Capua, dal quarto piano, potevo fruire di una visuale ottimale, cogliendo appieno tutta la drammaticità della scelleratezza umana, perché sicuramente tutto ciò che accadeva era stato provocato dall’uomo. Mercoledì 11, per tutta la giornata, si scorgeva un fumo denso ed esteso proveniente dal retro della montagna; invece, verso la mezzanotte si cominciava a notare il bagliore delle fiamme che cominciavano a lambirne la parte sommitale. Alle ore 02.00, di giovedì, le fiamme, dopo aver ormai risalito completamente il versante opposto, cominciavano a scendere rapidamente verso l’abitato di Sant’Angelo in Formis. Alle 04.30, ora in cui mi mettevo in viaggio verso Napoli, nel prendere l’autostrada dal casello di Santa Maria C.V. dell’A/1, avevo la possibilità di osservare l’omonima montagna dei colli tifatini, dal punto più prossimo. La scena era davvero impressionante: tutto il versante che guarda verso Capua era avvolto completamente dalle fiamme, che, dal mio punto di osservazione, sembravano ormai lambire pericolosamente finanche la monumentale basilica e le prime abitazioni della frazione capuana. Delle fiamme altissime, spinte da un vento che soffiava con velocità moderata, ma costante, in direzione del centro abitato, nelle poche ore della notte, avevano arso tutta la vegetazione boschiva, illuminando di una luce intensa, spaventosa e sinistra la nostra meravigliosa montagna.
Percorrevo l’autostrada, mentre albeggiava: mi trovavo nella tratta compresa tra l’Asse di Supporto e l’Asse Mediano, arterie stradali che si sviluppano rispettivamente nella provincia di Caserta e di Napoli. In quel tratto, in genere, si avverte un fetore disgustoso, di indeterminata provenienza e causa. Faccio ritorno a Capua nella medesima mattinata: riattraverso la tratta contraddistinta dal tipico ed inconfondibile fetore, mentre noto che la montagna di Sant’Angelo in Formis non è più in fiamme, probabilmente perché è andato a fuoco tutto ciò che c’era da bruciare in quella direzione. Veramente notevole è stato il fattivo contributo fornito dai Vigili del Fuoco e dai mezzi aerei antincendio. C’era, però, qualcosa di nuovo che attirava la mia attenzione; dal lato dell’agro aversano notavo sollevarsi verso il cielo una colonna di fumo denso, segno di rifiuti mandati al rogo.
Ho pensato che ciò che avveniva intorno a me, stava accadendo nel medesimo momento nell’Italia insulare e nel resto del meridione. Gli incendi, iniziati in Sardegna, avevano poi interessato la Sicilia, la Calabria, la Puglia e, infine, la Campania. I mass media riconducono spesso la scaturigine del generalizzato divampare delle aree boschive al riscaldamento globale determinato dall’effetto serra. Sarà pure vero, ma quando i focolai di incendio si sviluppano contemporaneamente, secondo un criterio razionale in più punti, per difficoltizzarne lo spegnimento, e a cadenze temporali in rapida e contestuale successione, sorge il ragionevole dubbio che il tutto non avvenga per cause accidentali ma in forza di uno scellerato ed interessato disegno umano, di natura speculativa, mirante agli aiuti di Stato conseguenti alle dichiarazioni di calamità, il cui riconoscimento è irrimediabilmente scontato. Calamità più provocate, che naturali: e per configurarle come tali, gli autori dei roghi si industriano di provocare il massimo danno, anche con possibile e prevedibile rischio per la vita umana, tant’è che, al momento, si conta già il decesso di alcuni volenterosi che hanno sacrificato la propria vita per contrastare la follia umana.
L’effetto serra, con il conseguente aumento delle temperature, in linea di massima, può concorrere alla propagazione delle fiamme ma raramente costituisce la causa primigena degli incendi.
Che peccato: la grande bellezza della natura che viene distrutta deliberatamente e cinicamente dall’uomo, un uomo ormai generalmente acculturato ma ignorante quanto a coscienza civica.
Restringo adesso le mie riflessioni alla nostra regione, la Campania Felix, perché sarebbe arduo soffermarsi sulla situazione che sembra interessare vaste aree della penisola italiana.
Ricordo a me stesso che soltanto qualche giorno fa aveva preso fuoco un deposito di rifiuti in plastica, allogato in un viciniore paese collinare –Pontelatone-, i cui miasmi sono stati percepiti anche da noi. In precedenza altri roghi avevano interessato, con inusitata frequenza, estese aree dove erano stoccate rifiuti nocivi; in alcuni casi, l’evento si reiterava anche più volte nel corso degli anni. La cronaca registra, pressoché quotidianamente, incendi di pneumatici, di materiale plastico e di scarti di lavorazione delle industrie calzaturiere e di pelletterie, nelle zone più periferiche del casertano e del napoletano. Per non parlare della mancata depurazione degli scarichi fognari. E lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani rimane un po’ dappertutto la spada di Damocle che incombe sul capo degli amministratori locali: rifiuti, talvolta trattati e a volte no, accantonati temporaneamente ove è possibile, in attesa di un ulteriore trasferimento o lavorazione. Il ciclo dei rifiuti non sembra trovare mai pace. Siamo sempre ad una fase intermedia, mai a quella finale, eccetto per quelli mandati, con notevole dispendio di risorse, all’estero e dei quali ci siamo liberati per sempre, anche se quest’ultima non sembra essere una soluzione eticamente corretta.
Il sito di stoccaggio di Taverna del Re, esteso su di un’area di 130 ettari, si sviluppa nei comuni di Giugliano (NA) e di Villa Literno (CE), accoglie, su piazzole di cemento, decine di migliaia di ecoballe, coperte da un telone di cellophan. Le ecoballe sono accatastate una sull’altra, per cui ogni piazzola sembra assumere la forma di una piramide tronca. Montagne di immondizia, bellamente lavorata ed imballata, come altrettanti trofei, svettano verso il cielo terso della verdeggiante pianura campana. Soltanto vedendole da vicino si ha un’idea dell’imponenza (e della mostruosità) di quelle innumerevoli montagne artificiali che sembrano finanche sovrastare il circostante paesaggio; per chi sconosce i luoghi, quelle piazzole, da lontano, al tramonto, possono apparire come delle amene alture distese dolcemente sul piatto piano di campagna.
Non si può fare a meno di rilevare che il sito di stoccaggio di Taverna del Re sia stato costruito secondo una logica perversa: in entrambi i comuni le ecoballe sono state accantonate al confine territoriale, ovvero lontano dai rispettivi centri abitati, ma in prossimità della provincia contigua, con la conseguenza che, trovandosi le piazzole spalla a spalla (località “Lo Spesso”, nel comune di Villa Literno, e località ”Taverna del Re”, in quello di Giugliano), hanno dato luogo alla formazione di uno dei siti più estesi della penisola e forse dell’Europa; in una ideale classifica, probabilmente, tra i primi del mondo.
Non ci giurerei, ma quelle montagne di ecoballe, accatastate per decenni, sono verosimilmente l’unica opera pubblica campana (Monumento all’inciviltà), di una qualche (deprecabile) rilevanza, seppure in negativo, da tramandare ai posteri, come prova tangibile del degrado raggiunto; opera davvero mastodontica per la sua estensione tanto da essere probabilmente visibile pure dalla luna.
Questa è adesso la nostra martoriata Campania. Vediamo cosa ne pensava, un paio di millenni fa, un grande pensatore del passato –C. Plinio Secondo-, nella sua opera “Della Storia naturale”:
Libro III – “Qui è quella felice Campagna (Hinc felix illa Campania est). Di qui cominciano quei colli pieni di viti, e la nobile ebrietà per lo sugo notabile per tutte le terre, e, come dissero gli antichi, gran combattimento del padre Bacco con Cerere. ….. Quivi si distendono i piani di Terra di Lavoro, e la raccolta che si fa della spelda (tipo di grano tenero) torna in oggetto di delizia. Queste riviere sono bagnate da’ fonti calde, e oltre all’altre cose sono notate d’avere le migliori ostriche, e i più nobili pesci, che sieno in tutto il mare. Nessuno altro paese ha miglior olio di questo”.
Libro VI- “Quelle terre sono così felici, amene e beate che vi si riconosce evidente l’opera prediletta della natura. Si pensi a quest’aria così vivificante, al clima così costantemente mite e salubre, campi tanto fertili, colline solatie, selve inoffensive, ombrosi boschi, utili foreste, monti ventilati, biade a perdita d’occhio, e una tale abbondanza di viti e d’ulivi, di pecore dall’ottima lana, di tori dalla carnosa collottola; tanti laghi, tanta dovizia d’acque irrigue e di fonti, tanti mari, tanti porti! E la terra stessa, che ovunque schiude il suo seno ai traffici e, quasi bramosa di dare una mano all’uomo, avanza le sue braccia nel mare”.
Campania Felix, così la denominò Plinio, per l’abbondanza di vino, olio e cereali (spelda o spelta, antica varietà di grano), per la fertilità del suolo, per l’abbondanza di bestiame, per la ricchezza di acque irrigue e per la pescosità delle sue coste, nonché per le fonti termali.
Riportiamo adesso cosa vide, oltre due secoli fa, un grande poeta e scrittore tedesco -J. W. Goethe- allorché, proveniente da Formia, si portava a Napoli, transitando anche per la nostra città di Capua. Era il 25 febbraio 1787 e le sue impressioni di viaggio sono riportate nel libro autobiografico “Viaggio in Italia” (Italienische Reise). Ecco le sue annotazioni: “La strada attraversò e superò nuove colline vulcaniche (la zona di Sessa Aurunca e Roccamonfina), ove non mi parve notare che poche rocce calcaree. Giungemmo infine nella piana di Capua, e poco più oltre a Capua stessa, dove ci fermammo per il mezzodì. Nel pomeriggio una bella campagna uguale ci si schiuse dinanzi; la nostra via correva spaziosa tra campi di verde grano, simile a un tappeto e già alto una buona spanna. Nei campi sono piantati filari di pioppi, sfoltiti per servir di sostegno alle viti. Così si continua fin dentro Napoli: un suolo terso, deliziosamente soffice e ben lavorato, viti d’eccezionale altezza e robustezza, coi tralci fluttuanti di pioppo in pioppo a mo’ di reti. ….. Alla nostra sinistra avevamo sempre il Vesuvio col suo poderoso fumacchio, e io gioivo tra me di poter finalmente contemplare quello straordinario spettacolo con i miei occhi. ….. Napoli è un paradiso dove ciascuno vive in una sorta d’ebbrezza obliosa. Così è per me; non so riconoscermi, mi par d’essere un altro. Ieri pensavo: <O eri matto prima, oppure lo sei adesso>. Mi son recato da qui a visitare anche le antiche rovine di Capua e i relativi annessi. Solo in questo paese si può capire cosa sia la vegetazione e perché si coltivino i campi. Il lino è già presso a fiorire, il grano è alto una spanna e mezza. La regione intorno a Caserta è tutta pianeggiante, i campi sono lavorati con un nitore uniforme, simili ad aiuole di giardini. Ovunque s’innalzano pioppi cui si allaccia la vite, che pur ombreggiando il suolo non impedisce la messe più rigogliosa. Che mai avverrà al prorompere della primavera! ….. Se a Roma si studia volentieri, qui si desidera soltanto vivere”.
Anche Goethe ci fornisce una descrizione pressoché poetica della nostra terra: dappertutto grano, viti, pianure ubertose e gioia di vivere.
Noi viviamo nella grande bellezza, ma spesso non ce ne avvediamo. Basti pensare alle viti abbarbicate ai pioppi notate da Goethe, allorché transitò per la zona dell’agro aversano: “Tralci fluttuanti di pioppo in pioppo a mo’ di reti”. La vite da cui si ricava il prezioso vino asprino si coltiva tuttora, ma noi non abbiamo la sensibilità di vederle perché non ci accorgiamo neanche di quei tralci avvinghiati ai pioppi che ancora oggi fluttuano come suggestive reti stese al vento. Che immagini poetiche! peccato non vedere né quelle né tantomeno quanto di bello c’è ancora nella nostra terra per ricavarne godimento e gioia per lo spirito. Viviamo nel Paradiso, ma siamo indifferenti al processo di decadimento ambientale che finirà per corromperlo definitivamente.
La nostra terra viene, ormai, reiteratamente denominata dai mezzi di comunicazione di massa “terra dei f…..”. Non oso riportare l’intera locuzione perché, a mio avviso, costituisce una bestemmia denominare, in tal modo, la Campania Felix.
Ricordo che l’espressione “Terra dei f. ….” si affermò prepotentemente qualche decina di anni fa. L’ho sempre aborrita, siccome mai condivisa, perché ritenuta di gravissimo pregiudizio per l’immagine della “Campania Felix”. Ho cercato di capire la genesi di quella locuzione, sebbene mi era sembrato fin dall’inizio che fosse stata utilizzata la prima volta da qualche giornalista desideroso di utilizzare un linguaggio più colorito e suggestivo per enfatizzare la problematica dei rifiuti. Pensavo che fosse impossibile addivenire al bandolo della matassa, ma non è stato così, perché, in breve tempo, accertavo che tale locuzione era stata utilizzata per la prima volta nel 2003, nel Rapporto Ecomafie curato da Legambiente. Successivamente, tale espressione, ripresa dalla stampa e dalla televisione, veniva impiegata anche da Roberto Saviano, quale titolo dell’undicesimo capitolo del libro Gomorra, pubblicato nel 2006, venduto in oltre 2.250.000 in Italia e più di 10 milioni di copie in tutto il mondo, venendo tradotto in 52 lingue.
Insomma la locuzione sensazionalistica inopportunamente utilizzata in un Rapporto Ecomafie venne, da quel momento, presa in prestito dai mass media che la utilizzarono per la sua forte valenza mediatica, in luogo di Campania Felix, per indicare una buona parte della pianura campana.
E così la denominazione “Campania Felix”, vecchia di due millenni, è stata surclassata da quella di “Terra dei f. …..”, espressione ormai conosciuta da milioni di persone in tutto il mondo civile, quel mondo che neanche esisteva ai tempi della Capua antica intorno a cui ruotava buona parte della civiltà antica.
Cosa augurarsi? Innanzitutto e preliminarmente che le istituzioni si diano da fare per contrastare più efficacemente le azioni umane che devastano ed inquinano il territorio, non mancando di svolgere un’opera di sensibilizzazione del cittadino, soprattutto di quello in età scolastica, in ordine alla bellezza della nostra terra. L’invito ad aborrire l’espressione “Terra dei f. …..” potrebbe già essere un primo e buon passo nella giusta direzione per una presa di coscienza collettiva, precondizione per l’auspicata rinascita ambientale.-
Non è affatto dignitoso sentirsi cittadini della “Terra dei f. …..”, per il doveroso rispetto che dobbiamo ai nostri antenati e per la tutela della nostra immagine, così banalmente compromessa.