CAPUA – Fino a qualche decina di anni addietro era pressoché impossibile avvistare un cinghiale nel suo
habitat naturale, ovvero in quelle particolari condizioni ambientali che favoriscono la
sopravvivenza e la riproduzione di talune specie animali. Da qualche tempo, invece, questo
mammifero della famiglia dei suidi si sta diffondendo un po’ ovunque, tant’è che spesso viene
avvistato anche nelle periferie delle città, mettendo soprattutto a repentaglio l’incolumità degli
automobilisti in caso di attraversamento improvviso della sede stradale. Poiché si muovono
soprattutto nelle ore notturne, il rischio per gli automobilisti è particolarmente elevato, anche in
relazione alla visibilità più limitata. Molti si domandano sul perché, in un lasso di tempo così breve,
sia stata possibile una tale elevata, ma soprattutto imprevedibile, moltiplicazione dei capi in
circolazione. La registrata fenomenologia non è riconducibile al caso ma ad una politica poco
attenta, ma soprattutto dissennata, nella gestione dei cinghiali. Negli ultimi decenni del decorso
secolo, varie amministrazioni, sollecitate dalle associazioni venatorie, richiedevano delle incisive
misure per incrementare, per scopi venatori, la popolazione dei cinghiali, motivando con la
contrazione complessiva del numero degli ungulati. Ed il grido di dolore dei cacciatori fu accolto,
con l’acquisto da parte di vari enti territoriali di cinghiali provenienti dal nord e dal centro Europa,
di stazza molto più grande di quella mediterranea. Quella maggiore mole non rappresentava un
problema; anzi quella conformazione fisica era ben accolta, perché c’era più carne da macellare.
Non lo era, nemmeno – e ciò nei primi tempi – la loro eccessiva prolificità, perché faceva comodo
per il mondo dei cacciatori avere una maggiore disponibilità di prede da stanare nelle intrigate
boscaglie. Se prima bisognava scovarle con una muta di cani appositamente addestrati, dopo
alcuni anni dalla loro immissione nel territorio italiano, si potevano incontrare i cinghiali, quasi
dappertutto, ai margini delle strade, nelle periferie dei paesi e finanche nella conurbazione della
capitale. Attualmente vengono diramate istruzioni circa la condotta da tenere, nel caso di incontro
casuale e ravvicinato con consimili animali; incontri, ormai, neanche troppo rari. La
raccomandazione più frequente è quella di allontanarsi senza creare allarme nell’animale e di
evitare soprattutto di avvicinarsi alla prole – in genere sempre numerosa- della scrofa, stante
l’aggressività della stessa, quasi sempre procedente a distanza dalla figliolanza per abituarla ad
essere più autonoma ed intraprendente per le esigenze di sostentamento. Quella verificatasi la
possiamo definire una situazione paradossale: un tempo si dovevano allestire apposite squadre di
cacciatori, supportate da mute di cani, per scovare con molta difficoltà dei cinghiali, col rischio,
neanche tanto remoto, di gravissimi incidenti di caccia. Adesso, invece, l’emergenza vissuta dalle
comunità più prossime ai rilievi collinari e montani, e non solo di essi, è quella di evitarli, per quanto possibile, e di scappare da essi nel caso di fortuiti incontri.
Il perché questi animali si avvicinano sempre più ai luoghi abitati è verosimilmente spiegabile col loro numero in esponenziale crescita, che non gli consente di disporre agevolmente di abbastanza cibo per il loro nutrimento, e dall’altra dall’abbondanza di scarti di alimenti che sono in grado di ritrovare facilmente nei cassonetti dei rifiuti urbani. Degli animali selvatici stanno, insomma, cambiando gradualmente le loro abitudini alimentari e la responsabilità è dell’uomo che ha immesso tali specie di cinghiali in ambienti non
congeniali. Il pesce siluro insidia la fauna ittica autoctona dei corsi di acqua dolce ed i cinghiali infestano adesso, diversamente dal passato, pure le aree urbane. E che dire dei gabbiani che si
allontanano dalle zone marine, dove sono sempre vissuti, per fare frequenti banchetti tra i rifiuti
solidi urbani. I manuali di etologia dovrebbero essere aggiornati per documentare le nuove
abitudini comportamentali di alcune specie di animali. Lo Stato, le Regioni e le comunità locali
stanno adottando delle strategie di contrasto alla diffusione territoriale dei cinghiali. Le iniziative
intraprese appaiono, però, abbastanza complesse pure ai cacciatori che, in teoria, dovrebbero
esserne la parte più attiva. Il linguaggio contenuto nei testi legislativi e regolamentari, per il suo
tecnoletto, ovvero per il linguaggio tecnico usato, avvezzo più per i veterinari che per i cacciatori,
non ne facilita la comprensione. E così tra mille difficoltà e non facile coordinamento tra le
numerose istituzioni chiamate a concorrervi, gli ungulati continuano a prosperare. Il nostro paese,
quando non riesce a trovare una soluzione ad una emergenza pensa sempre di impiegare l’Esercito
per risolverla, come se ci fosse bisogno di una forza armata per combattere quel tipo di fauna
selvatica. Si parla, addirittura, di coinvolgere nelle strategie di contrasto 177 militari, da
destinare a tale specifico scopo, che non sono niente rispetto all’estensione territoriale della
nostra penisola. La soluzione più pratica, da molto adombrata, è quella del massivo
coinvolgimento delle associazioni venatorie, molto diffuse e radicate sul territorio, del quale
hanno una capillare conoscenza. Nel frattempo che i dispositivi dispiegati a vario livello di
competenza sviluppino la loro piena efficacia, sempreché la raggiungano, gli imprenditori agricoli, i
piccoli coltivatori e quanti hanno un appezzamento di terreno, soprattutto al limitare dei rilievi,
così come accade nell’area dei colli Tifatini, per fare riferimento alla provincia di Terra di Lavoro,
continuano a lamentare ingenti danni alle loro coltivazioni, compreso i frutteti ed i vigneti. Le
buche scavate nel terreno alla ricerca di tuberi, le radici divelte degli alberi, i tralci delle viti
trascinati al suolo per afferrare i grappoli di uva, i rami degli alberi da frutta spezzati per mangiare
le pesche o altri prodotti di stagione sono la comprova della presenza in loco di una numerosa
colonia di cinghiali. A questi danni bisogna sommare quelli derivanti dagli squarci provocati nelle
recinzioni: i cinghiali di stazza più grande sono, difatti, in grado di abbattere finanche le reti
metalliche o di intrufolarsi in esse (nelle immagini di testa, alcuni cinghiali alla ricerca di cibo e le foto pervenuteci da un lettore sui danni provocati dagli animali al suo terreno in zona di S.Angelo in Formis).
E che dire del grave nocumento arrecato alle scarpate, tanto numerose in montagna ed in collina: grufolando e scavando le indeboliscono di molto, anche col concorso dell’acqua piovana che in esse finisce naturalmente ed inevitabilmente per incanalarsi.
In conclusione, il problema c’è e quanti lamentano le conseguenze della proliferazione dei cinghiali denunziano che, nonostante gli interventi annunziati dalle varie istituzioni, non hanno la percezione di una sua sicura e rapida risoluzione. Insomma, alle parole non sembra che siano seguiti i fatti. Intanto i soggetti danneggiati dall’emergenza cinghiali hanno cominciato a farsi un’idea circa il mancato riscontro, quanto ai risultati attesi, della strategia di contrasto finora seguita e la causa l’hanno individuata nella competenza ad operare ripartita tra amministrazioni centrali e locali, con la conseguenza che ogniqualvolta un cittadino, un’azienda o una associazione eleva una nota di doglianza ad uno dei soggetti competenti per materia, in genere quelli più prossimi ad essi, viene da costoro indirizzato ad altri enti analogamente competenti; insomma troppi galli a cantare senza alcun risultato apprezzabile in vista. A fronte di una emergenza che postula interventi urgenti e risolutivi, la competenza diffusa e ripartita fra più soggetti, si presenta, dunque, perdente rispetto alla competenza centralizzata.