Una sera, sorseggiando una tazza di tè, seduta nel foyer del Teatro Ricciardi, mi ritrovo a chiacchierare con Antonio De Blasio, direttore del teatro.
La chiacchierata si sofferma sul terremoto dell’Irpinia del 23 novembre del 1980 e sulla considerazione che almeno un paio di generazioni si ricorderanno sicuramente e chiaramente cosa facevano e dove alle 19:34 e 53 secondi di quel tragico giorno .
Il forte terremoto,che sconvolse la Campania centrale e la Basilicata centro-settentrionale, con epicentro, Teora, Castelnuovo di Conza e Conza della Campania, fu causa di un’immane tragedia che contò 2914 morti, 8848 feriti circa e 280 mila sfollati.
Antonio De Blasio, mi confida che, lo scorso anno, in occasione del quarantesimo anniversario del terremoto, scrisse dei versi:
“Teora” 23 novembre 1980
Antonio De Blasio
Borgo di vecchi e bambini,
chi poteva partiva.
Giovani pochi,
né padri né madri
a fare da culla.
Allo scoccare dell’ora
due giovani fiori
il quaderno davanti
la nonna di fianco
coperti di travi,
detriti e fango.
Allo scoccare dell’ora
sei ragazzini nel bar
intorno al calcetto,
contammo i cappotti dall’alto di un tetto.
Poi ripartimmo
e non sapemmo se mano pietosa li aveva trovati
o ruspa le aveva violati.
Nel campo di calcio
le tende dei vivi
le bare dei morti.
Le parole della poesia sono evocatrici di immagini che riportano a quei giorni in cui le Tv e i giornali erano pieni di notizie di paesi interamente crollati e di storie di persone sopravvissute e disperate che avevano perso tutto in quella tragedia.
Antonio, a questo punto, afferma, catturando così definitivamente la mia attenzione, che “Teora-23 novembre” racconta la sua diretta esperienza, vissuta in quel piccolissimo paese distrutto in pochi secondi.
Lo invito a raccontare.
Le ore immediatamente successive al tragico evento furono causa della nascita di una forte motivazione nei giovani a prestare aiuto e ad intervenire comunque e con ogni mezzo, racconta Antonio, anche perché spinti emotivamente dal monito del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, apparso su tutti i giornali, “FATE PRESTO!”.
In quei giorni,infatti, a Capua, alcuni gruppi di studenti si organizzarono per prestare soccorsi recandosi in quelle zone.
Antonio De Blasio e il suo gruppo furono mandati, su indicazione della FIGC e della CGIL, proprio a Teora poiché giungevano notizie che i soccorsi avevano grosse difficoltà ad intervenire sia a causa del luogo impervio che per il maltempo, intanto, abbattutosi in quella zona.
Il gruppo, partito da Capua, era di circa 20 / 25 persone e arrivò a Teora con un pullman in piena notte.
Si trovarono dinanzi ad una situazione surreale, disperata in cui i soccorsi erano ancora scarsi.
La macchina organizzativa stentava a muoversi e, addirittura, ricorda Antonio De Blasio, non c’erano mezzi per scavare se non le loro mani nude che faticavano a spostare detriti e macerie per creare dei varchi.
Oltre al loro gruppo, nella stessa zona ne stazionava uno di friuliani che memori del terremoto di Gemona erano meglio attrezzati con vanghe badili e picconi.
Il gruppo si concentrò, allora, sui superstiti per i quali fu allestita una tendopoli nel campo sportivo e per i quali cominciarono ad arrivare merce e viveri che venivano scaricati a mano anche sotto la pioggia battente e stoccati in un magazzino di fortuna realizzato nella scuola elementare.
Intanto le ore passavano, intorno regnava un silenzio assordante, il paesaggio era spettrale e dalle macerie, inevitabilmente, cominciavano a sollevarsi cattivi odori.
Era terribile la consapevolezza che molti di quei corpi non avrebbero ricevuto una degna sepoltura e la frustrazione per il sentirsi poco utili era molto forte, poiché, dice Antonio De Blasio, “vedevi i vivi abbandonati e sapevi di non poter fare più nulla per i morti”.
Sono tante le immagini di quei giorni che Antonio De Blasio serba con sé ma ne ricorda due forse tra le più dolorose trasposte poi nella sua poesia.
Scavalcando le macerie gli capitò di vedere il corpo di una donna anziana riverso su due bambini ricoperti di macerie fino alle ginocchia e schiacciati dalle travi. Probabilmente il crollo li aveva sorpresi mentre erano intenti a fare i compiti per il giorno successivo poiché accanto ai loro corpi c’erano ancora dei quaderni.
L’altra immagine, anche questa descritta nella poesia, è quella dei bambini sorpresi, invece, mentre giocavano a calcio balilla nel bar del paese.
I bambini erano sei, come i sei cappottini lasciati appesi ad un attaccapanni visto attraverso una feritoia nel muro dalla quale filtrava luce.
Ed è con queste scene negli occhi che il gruppo ripartì per Capua.
Il viaggio di ritorno durò parecchie ore e fu scandito solo dal silenzio dei pensieri.