In data 9 agosto corrente anno abbiamo redatto un articolo su di un manufatto visibile in Capua, nei pressi del parcheggio di Porta Tifatina, nella curva, quasi all’altezza dell’inizio del Corso Gran Priorato di Malta. L’articolo è reperibile nel menù, alla voce rubriche. Evidenziammo che un ufficiale di artiglieria –Giuseppe Novi-, nel 1861, aveva notato una lastra di marmo, recante una epigrafe in lingua latina, collocata sulla sommità dello stesso. Il contenuto di essa gli apparve di notevole rilevanza per cui, quasi preso da una premonizione, pensò di trascriverla per intero in un suo libro recante il titolo “Il teatro della guerra dal settembre al novembre 1860”. La guerra a cui l’autore alludeva era quella combattuta tra Garibaldi, al comando dell’Esercito Meridionale, nel quale erano confluiti i garibaldini, e l’esercito borbonico. Il presagio del Novi fu azzeccato; infatti negli anni successivi quella epigrafe è rimasta danneggiata gravemente, tant’è che se ne è conservata attualmente pressoché meno del cinquanta per cento di essa, essendo andata distrutta la rimanente parte. Nell’articolo a cui si fa seguito riproducemmo per intero l’epigrafe, riservandoci di provvedere alla sua traduzione in un secondo momento. Orbene, il pari interesse nutrito dal Dirigente superiore della Polizia di Stato in congedo dott. Landolfi Salvatore, circa il contenuto di quella epigrafe, ha consentito di acquisire la collaborazione di un esperto in materia, ovvero del chiarissimo professore Gennaro Sacco, di San Nicola la Strada, già professore di latino e greco al Liceo Ginnasio Pietro Giannone di Caserta. Ecco la traduzione: “Nell’anno 1119 si verificò una penuria (scarsezza) di acque limpide e molto salutari, che dai colli Tifatini scendevano verso la città di Capua; a causa di tale siccità, i Campani avevano sofferto molto e a lungo e il ruscello sotterraneo si era completamente disseccato per la lunga durata della mancanza di acqua, fino a scomparire del tutto; per questo motivo da cinque, che erano, le fonti Tifatine erano diventate due e si erano quasi prosciugate; il popolo campano, allora, ispirandosi ad un provvedimento previsto nel suo ordinamento, si assunse l’impegno di ricostruire e rinforzare l’acquedotto a spese dello stato; all’uopo, da una parte si adoperò per ricondurre l’acquedotto alle fonti primigenie per quattromila passi (cioè per quatto miglia), dall’altra lo ricostruì dalle fondamenta, finché non si vide zampillare l’acqua, così come oggi la vediamo; un giorno, però, l’acqua, che scendeva fino a S. Petro e a Pisciarelli, fu deviata, perché ne usufruisse la sola Capua; in seguito andò dispersa, e il popolo campano, attraverso un condotto minore nuovo e trasversale lungo 456 passi, la ricondusse dalla stessa fonte all’acquedotto principale; infine, con la più grande perizia possibile, il popolo campano nell’anno 1779 (?) riportò alla luce dalle fondamenta una cisterna, delle cui acque zampillanti si avvantaggiarono i Campani; esse, infatti, sprizzando fuori a tempo debito, inondarono (dissetarono?) tutta la città”.L’epigrafe, come si deduce, racconta le vicissitudini della città di Capua per l’approvvigionamento dell’acqua potabile proveniente dalle salutari fonti della montagna di S. Angelo in Formis, area, nell’antichità, notoriamente ricca di sorgenti. Si fa riserva di fare un ulteriore seguito, in quanto il manufatto indicato in premessa potrebbe esse un caposaldo dell’acquedotto adducente l’acqua alla cisterna Tortelli, che da esso dista poco più di qualche centinaio di metri.