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LA TERRA DI LAVORO E L’EMIGRAZIONE: LA BANDA MUSICALE DI S. MARIA C.V., NEL 1890, EMIGRO’ IN AMERICA PER CERCARE LAVORO.

RUBRICA: EVASIONE CULTURALE A CHILOMETRO ZERO E AD EURO UNO – Viviamo nella storia, nell’arte e nella bellezza: tutto è a portata di mano. Bisogna soltanto riscoprirlo perché tutto è già intorno a noi e fruibile a costo pressoché zero; il costo di un caffè.

Siamo ormai al terzo secolo di emigrazione: dal sud e dal resto dell’Italia meridionale ed insulare, nonché in misura inferiore dal nord, abbiamo assistito a flussi migratori verso l’Europa continentale e le Americhe. Tutto è iniziato all’indomani dell’unità d’Italia, anche se i libri di storia scolastici non ne parlano, perché focalizzati ad illustrare principalmente i vantaggi dell’unificazione.

          Per esigenze di spazio, mi limito ad illustrare quanto accaduto nella Campania Felix principalmente nella seconda metà del diciannovesimo secolo, anche se l’emigrazione è continuata pure nel ventesimo secolo ed in quello attuale. Ho attinto preziose notizie dagli innumerevoli giornali pubblicati, a quel tempo, nella nostra provincia e conservati presso l’emeroteca del Museo Campano di Capua. Orbene dalla consultazione degli stessi si ottiene l’esatta percezione di quanto accadeva giorno per giorno nel nostro territorio. Ho avuto modo di apprendere le difficoltà esistenziali delle locali popolazioni e soprattutto di quelle dell’alto casertano. Evidentemente i nostri avi, soprattutto nell’ultimo quarto del 1800, non riuscivano a sbarcare il lunario, neanche per autosostentarsi sul piano alimentare. L’unica soluzione ad una persistente crisi economica era rappresentata dall’emigrazione, quasi sempre orientata verso le Americhe. Che i flussi migratori fossero alimentati dalle precarie condizioni di vita è dimostrato dalla circostanza che essi, nella prima parte del diciannovesimo secolo, e precisamente fino al 1860, furono alquanto modesti, benché il Regno delle Due Sicilie fosse tra i più dotati per i trasporti transoceanici, con moderne navi “a vapore”.

          Infatti, la prima nave “a vapore” italiana a giungere a New York fu un piroscafo del Regno delle Due Sicilie, che vi approdò nel settembre del 1818. Nel mese di giugno dello stesso anno, un altro bastimento a vapore, denominato “Oreto” era approdato a Boston, proveniente dalla Sicilia, trasportante agrumi, zolfo ed altri caratteristici prodotti isolani. Altri bastimenti, come il “Sirio”, proveniente da Napoli, comandato da Gaetano Paturzo di Piano di Sorrento, approdò ugualmente a Boston, nel 1827, per trasportarvi zolfo, agrumi e frutta secca, rientrando nel porto napoletano carico di Caffè, zucchero, riso, tabacco, legname e spezie. Il traffico commerciale transoceanico, con navi a vapore, era ormai divenuto ordinario.

          Il primo servizio di regolare navigazione a vapore tra il Regno delle due Sicilie e gli Stati Uniti di America fu istituito nel 1842, anno in cui il marchese di Pietracatella, primo ministro di Ferdinando II, autorizzò una società di navigazione ad effettuare dei trasporti periodici tra ”i reali domini (napoletani) e le Americhe”, con bastimenti a vapore di 400 e 500 cavalli, oltre che per il trasporto passeggeri, anche per quello di derrate alimentari deperibili.   Il più grande vapore che, nel 1852, assicurava collegamenti periodici da Palermo alla volta di new York fu il “Sicilia” degli armatori De Pace. Il “Sicilia”, che primeggiava, nel Mediterraneo, su tutte le altre navi italiane a vapore, fu affiancato da altri quattro piroscafi similari. 

          Dal Regno delle Due Sicilie, dunque, benché vi fosse la concreta possibilità di viaggiare, non erano molto vistosi i flussi migratori verso le Americhe; fino al 1860, furono, infatti, pressoché insignificanti. Divennero, invece, giganteschi subito dopo l’unità d’Italia e gli armatori del tempo ne approfittarono anche per lucrare sulla crescente miseria che spingeva le popolazioni meridionali ad emigrare altrove, anche nel nuovo mondo.

          Solo per dare un’idea di questa improvvisa escalation migratoria, si forniscono sintetiche notizie del come le compagnie di navigazione si fossero attrezzate per farvi fronte ed arricchirsi di conseguenza su quell’immenso traffico di merce umana. Negli ultimi decenni del 1800, i flussi migratori erano divenuti così rilevanti che, a fianco delle compagnie di navigazione già affermate, si aggiunsero armatori minori che compravano finanche navi di seconda mano per provvedere ai relativi trasporti. Dal 1888 in poi, si raggiunsero picchi migratori, mai registrati in precedenza, orientati soprattutto verso l’America meridionale, ed in particolare per il Brasile ed il Plata.

          Le navi impiegate in quell’ultimo scorcio del diciannovesimo secolo per il trasporto dei migranti, soprattutto provenienti dalle terre del deposto Regno delle Due Sicilie, furono i vapori “Aurelia”, “Messico”, “Brennero”, “Mario”, “Camilla”, “Giuseppe Garibaldi”, “Elisa Anna”, “Regina”, “Silvia”, “Alexandra”, “Vilna”, “Vittoria V”, “Atlantica”, “Aquila”, “Pacifica”, “Arno”, “Temerario”, “San Giorgio”, “San Marco”, “Fanfulla”, “San Martino”, “Palestro”, “Solferino”, “Caffaro”, “Secolo”, “America”, “Brazil”. L’elenco riportato, seppure parziale delle navi impiegate nel trasporto dei migranti, può apparire sterile, ma non lo è, perché esso, nella sua sinteticità, ben veicola il concetto dell’industria della navigazione sorta all’indomani di quel spasmodico bisogno di traslocare altrove, in nuove terre, delle quali la gran parte dei migranti non aveva alcuna idea e dalle quali non tornò mai più, struggendosi nel ricordo degli affetti dei congiunti lasciati nelle terre natie. 

          Gli armatori che si attrezzarono per far fronte al bisogno di trasporto di migranti verso le Americhe erano, in genere, nelle simpatie della Casa Savoia. Poiché le navi disponibili nella penisola erano insufficienti, gli industriali della navigazione si approvvigionarono anche di vecchie carrette di mare, costruite in Inghilterra ed acquistate a prezzi stracciati, per poi esser reimmatricolate con nomi italiani altisonanti. Ce ne sono molte pure tra quelle sopra citate.

        Si cercava di agevolare l’esodo di grandi masse di sfortunati italiani in terre lontane per ridurre la pressione demografica e, quindi, conseguentemente depotenziare possibili tensioni sociali e turbative per l’ordine e la sicurezza pubblica. Addirittura veniva offerto il viaggio (passaggio) gratuito alle famiglie degli agricoltori, come riportato sulla pubblicità della società di “Navigazione Italo – Brasiliana”, per il viaggio verso lo Stato di Minas Gerace (Brasile), con partenze fisse per Rio de Janeiro, Santos, Montevideo e Buenos Ayres.

          In questo contesto temporale si colloca la partenza dei musicanti sammaritani. Ne parlava il giornale “La Nuova Bilancia”, nell’ottobre del 1890, sotto il titolo di “Movimento di Emigrazione nella nostra provincia: da’ musici …..a contadini”. Ecco quanto scrisse il giornalista:” Va propagandosi la corrente della emigrazione in America. La scorsa settimana poco mancò che tutta la Banda musicale di Santa Maria Capua Vetere non fosse partita in massa per l’America”. E per poter partire bisognava dare anche tutte le garanzie per assicurare di essere in grado di tornare indietro, senza gravare sulle finanze dello Stato italiano. L’articolista, infatti, chiariva che “ciascuno (musicante)” doveva fare “il deposito di L. 200, per l’andata e ritorno, avvegnachè il Console italiano non ne voglia sapere di vederseli poi tra’ piedi, quando la fame e la miseria li affligga o nella vallata del Mississipi o dell’Uraguay”. Ebbene un bel numero di musici lasciò il posto sicuro nella banda musicale, ma evidentemente poco retribuito, per tentare l’avventura americana. Il giornalista indicava in sette gli “individui della Banda” che “lasciarono l’ingrata terra che …..loro aveva assicurato (fino a quel momento) certo ed onesto pane. Da’ musici  ….. a’ contadini la corrente della emigrazione è in più vasta scala”.

          Siccome la miseria era largamente diffusa, c’era pure chi cercava di industriarsi in loco come “facilitatore” delle partenze, per trarne un facile profitto. Veniva, infatti, riportato nel medesimo articolo che “Corre voce che un ricco proprietario della provincia, vada arruolando, od abbia arruolato già un migliaio di contadini per capitanarli in un’impresa americana”. Si trattava di un vero e proprio servizio di intermediazione che, anziché collocare beni o servizi sul mercato, trasferiva oltre oceano, quasi sempre senza ritorno, dei poveri disgraziati.    

Il giornalista faceva anche il calcolo giornaliero della smisurata rendita che si andava a perdere trasferendo all’estero un capitale umano fatto di cinquemila persone, quelle che, in quel periodo, in una giornata, venivano accompagnate oltreoceano. Stimava la perdita annua in circa “2 milioni e 250 mila lire di lavoro, oltre ad una somma pressoché eguale di produzione, e di giro di capitali. Totale circa 5 milioni di perdita reale per l’Italia”. Il giornalista, dopo aver giudicato folle quella politica che agevolava l’emigrazione, perché sottraeva risorse all’agricoltura, valutava che ad “una rendita di cinque milioni così perduta” corrispondeva “al minimo un capitale di cento milioni, che avrà da soffrirne”.

          In conclusione di questa breve digressione sull’emigrazione dell’Italia postunitaria, con l’esodo di buona parte della banda musicale di Santa Maria Capua Vetere, non possiamo fare a meno di riflettere sull’emigrazione attuale. In via preliminare, si può affermare che la fenomenologia migratoria nostrana non ha mai avuto termine. Ebbe una vera esplosione anche subito dopo la seconda guerra mondiale, con flussi migratori diretti verso le Americhe ed il centro Europa. Negli anni sessanta, settanta ed ottanta del novecento, con il boom economico esteso anche al sud Italia, molti migranti italiani fecero ritorno nelle terre natie. Da qualche decina di anni e fino ad oggi, con la crisi strutturale e congiunturale che sta investendo l’intera penisola, il flusso migratorio è ripreso con maggiore lena. Tanti giovani meridionali, quelli più dotati culturalmente e quelli più operosi e di buone capacità e conoscenze tecniche ed informatiche, stanno lasciando l’Italia in cerca di una maggiore valorizzazione delle loro qualità culturali e professionali e, naturalmente, di un reddito più dignitoso. Insomma siamo al punto di partenza, ovvero alle considerazioni del giornalista de “La Nuova Bilancia” dell’ottobre 1890, che condividiamo in pieno per la loro attualità: “perdita del capitale umano più talentuoso, messo a frutto ovunque nel mondo, anziché in Patria”.   

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One Comment

  1. Giovanni Balzanella

    Ottimo articolo, grazie Antonio per aver illuminato quel tempo della storia post unitaria tenuto astutamente in ombra dal potere sabaudo invasore.
    L’incredibile e puntuale balzo dell’emigrazione è la prova inconfutabile della disastrosa ricaduta dell’unità d’Italia sul Sud, o meglio della sua modalità di realizzazione.
    Duole, altresì, dover osservare come la strategia denigratoria verso il glorioso Regno meridionale, messa in campo dai nuovi regnanti/occupanti dopo il 1860, abbia generato nei settentrionali un’idea di presunta superiorità che ancora oggi gravemente persiste.
    È il caso di revisionare i testi scolastici adottati rendendoli testimoni della REALTÀ storica e privandoli di quella veste propagandistica “pro unità d’Italia” che hanno sempre avuto, con danni di immagine sul popolo meridionale.
    Dare a tutti i giovani una base gnoseologica corretta potrà ristabilire il rispetto tra Italiani.

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