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CAPUA: UN IMPONENTE REPERTO ARCHEOLOGICO FU COLLOCATO CURIOSAMENTE ED IMMOTIVATAMENTE CAPOVOLTO NELLE MURA DI UN ANTICO PALAZZO DI UNA IMPORTANTE ARTERIA CITTADINA.

CAPUA – Chi percorre il Corso Gran Priorato di Malta di Capua, al civico n.70 (numerazione desunta, poiché mancante, ma ricavata dalla progressione di quella immediatamente precedente), viene attirato
da un massiccio reperto archeologico di forma rettangolare ( circa cm.160 di altezza per cm.60 di
base) infisso nella parete di un antico palazzo, denominato “Palazzo delle cento persone”; il nome
deriva dalla circostanza che lo stesso, mercé la sua imponenza, aveva consentito nei tempi andati
di accogliere innumerevoli famiglie di Capuani. Nella cittadina di Capua si scorgono una miriade di
reperti archeologici retrodatanti all’antica Roma, di cui diversi antecedenti l’era cristiana anche di
alcuni secoli. Ciò che suscita perplessità in chi lo osserva è da ricondursi al suo innaturale
posizionamento, essendo stato infisso capovolto (l’epigrafe si presenta, infatti, con le lettere
sottosopra) nel portone di ingresso del “Palazzo delle cento persone”. L’erosione della superficie
del masso, proveniente dal viciniore Tifata, provocata dalle inclemenze meteorologiche, in uno
con la scritta capovolta, difficoltizza, e non di poco, la comprensione del testo dell’epigrafe.
Attualmente è leggibile soltanto il seguente testo ”Q. TIBURTI. Q. MENOLAVI. ULTRARI. OSS. HEIC.
SITA. SUNT” (nelle immagini di testa, il reperto in un foto d’epoca e nelle condizioni attuali; uno scatto è ruotato per consentire la lettura dell’iscrizione) Theodorus Mommsen, che nel XIX secolo fu a Capua, in sede di sopralluogo delle vestigia archeologiche della Campania Felix, raccolte nel libro “INSCRIPTIONES BRUTTIORUM LUCANIAE, CAMPANIAE SICILIAE LATINAE” -Inscriptiones Regni Neapolitani latinae-, edito in Lipsia nell’anno 1852, aggiornato nel 1883, leggeva qualche lettera in più, ovvero una “L” anteposta alla parola MENOLAVI, della quale, oggi, si legge solo la metà della lettera M, mentre della lettera H di Heic, si legge solo la metà di essa. La lettera L, attualmente non leggibile, e le lettere M e H che si leggono oggi solo parzialmente, si presume che non siano state erose in questo circa secolo e mezzo, intercorrente dalla lettura che ne fece il Mommsen nel diciannovesimo secolo, ma
piuttosto ricoperto in occasione di un maldestro intervento presso il reperto archeologico, in
quanto si intravede un tratto di malta, di pochi centimetri di larghezza, posto a riempimento di
una fessurazione che si estende da sotto la terra Q (per intenderci, quella iniziale dell’epigrafe)
fino alla punta della mannaia raffigurata nel cippo. Per leggere più agevolmente l’epigrafe
conviene capovolgere la foto del reperto, in cui si intravede, ingrandendola, anche la fettuccia di
malta apposta sul lato sinistro (sinistro, guardando il reperto in una foto capovolta, e destro,
ponendosi di fronte ad esso). Siccome l’iscrizione funeraria riporta il nome di Tiburio Menolavi si è
dedotto che il cippo faccia riferimento ad un certo Quinto Tiburio Menolavi, forse scannatore di
vittime sacrificali, di cui le due mannaie, oggi ben visibili, fanno ancora bella mostra. Doveva
trattarsi, a quel tempo, di un ruolo di un certo prestigio, anche ben remunerato. Per quanto
attiene alla circostanza dell’irrazionale collocazione del reperto (cioè capovolto, anziché nel giusto
verso, come peraltro riscontrato in tutti i reperti infissi negli antichi edifici di Capua), possiamo
azzardare la suggestiva ipotesi che il singolare posizionamento, sia da ricondurre, in forza della
particolare professione del defunto, a ragioni apotropaiche, ovvero tese a scongiurare nefaste
future conseguenze a quanti l’hanno maneggiato. E che l’ipotesi formulata possa essere fondata
può essere spiegato dalla constatazione che il reperto fin dalla sua collocazione era mancante di
una porzione (lato sinistro), tant’è che per supplire a ciò nel corso degli anni è stato provveduto a
riempire quello spazio, anche per dargli maggiore stabilità, con dei mattoncini. All’epoca della sua collocazione, quindi, sarebbe stato più ragionevole porlo nel giusto verso, anche per tale motivo.
Che il reperto fosse mancante di una porzione e che tale vuoto sia stato poi riempito con dei
mattoni, lo si può notare dal confronto delle 2 foto a corredo del presente scritto, dove nella
prima, risalente al secolo passato, si vede la porzione mancante, mentre quella scattata nel
presente mese ne evidenzia il suo riempimento con una mezza dozzina di mattoni,
verosimilmente inseriti all’epoca della fessurazione, a mezzo malta, dell’interstizio, con
andamento verticale, di cui si è già fatto cenno, intercorrente tra il reperto ed il muro ove risulta
collocato. Il disporre di una documentazione fotografica è quanto mai utile per poter ricostruire le
passate vicende. Il reperto in questione è stato oggetto di studio fin dalla prima metà del XV
secolo. Lo descrisse per primo Giovanni Pontano nell’opera “De aspiratione”; successivamente
l’hanno visto ed investigato altri studiosi, quali Fra Giocondo (Sylloge Inscriptionum), Augustin,
Smetius, Garigliano, Eckert, Mommsen, D’Isanto e, per ultimo, Pane/Filangieri. Non è dato
conoscere data e luogo del ritrovamento, verosimilmente lungo la Via Appia. Trattasi di pietra
tombale molto antica e probabilmente retrodatante ad epoca precristiana.

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